«Bellezza in scatola»

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di Enzo Fileno Carabba

C’era una volta un mercante di Livorno che si perse in territorio pisano. Lì tutto era strano e minaccioso, un’ombra storta di follia opprimeva il paesaggio. Cercando una scorciatoia si ritrovò a camminare in una zona incolta e piena di recinzioni, un labirinto che lo sputò sul retro di una villa abbandonata. Sul prato alcune scatole marcivano all’aria malsana. «Scatole» pensò lui con un sussulto di speranza.

Bellinda, la figlia più piccola e bella, gli aveva chiesto una piccola scatola graziosa, come regalo, e lui non l’aveva trovata. Così passò in un varco del muro diroccato e seguì la scia delle scatole. Non erano né piccole né graziose, chissà cosa contenevano.
La porta era socchiusa, lui entrò. Dentro c’era di tutto: migliaia di cose, detriti accumulati da una forza terribile. Formavano un magma solido. Tra queste montagne di oggetti abbandonati correvano dei camminamenti, come se qualche bestia percorresse quei luoghi. «Cinghiali» pensò lui.

Inorridito da quello spettacolo di degrado si girò per tornare indietro. Vide un pianoforte che non aveva notato perché sommerso dal ciarpame e, sulla tastiera aperta, una scatola. Piccola e graziosa, scintillava nello squallore generale. Aggirò una montagnola di coperte su cui giocavano due scarafaggi. Scavalcò un vogatore che doveva risalire al medioevo e prese la scatolina. Perfetta per Bellinda.

In quel momento si sentì un ruggito e la stanza tremò. Gli scarafaggi scapparono. La montagna delle coperte si mosse e ne uscì un mostro.
«Bastardo, ti ho lasciato entrare qui, ti ho lasciato usare la mia aria e il mio spazio, e ora mi derubi? Ti ammazzo».

Il mostro era brutto. Grosso, sporco, con i vesti cadenti, i lunghi capelli unti e lo sguardo storto da pazzo. Prese da sotto il vogatore qualcosa che doveva essere lo spiedo del camino. Avanzava pendendo un po’ di lato. Ansimava.
Il mercante si inginocchiò: «Ti prego. Mia figlia mi ha chiesto una scatola. Ecco perché l’ho presa».

Il mostro si fermò, i suoi occhi si spalancarono: «Hai una figlia a cui piacciono le scatole? Portala. La voglio tenere con me. Sono il più grande collezionista del mondo. Starà bene. Se non la porti vi ammazzo tutti».
«Sì sì, te lo prometto» rispose il mercante. Era talmente spaventato che avrebbe risposto qualsiasi cosa. Tanto poi, una volta in salvo, non avrebbe certo mantenuto la promessa. La promessa fatta a un mostro non vale niente.

Il mostro si calmò, ora respirava normalmente «Vieni, ti faccio vedere le mie ricchezze» disse. Lo portò in giro per la villa. In certe stanze passarono a stento, per la densità delle cose. «Vedi?» diceva mostrandogli dei piatti rotti accatastati su una sedia a dondolo. «Questo è il prezioso servito di mia nonna».

«E quello è un Botticelli» spiegò indicando un pezzo di poster appeso al frigorifero pieno di scarpe, ne parlava come fosse l’originale. «Scusa se prima sono stato brusco. Ma sai: devo stare attento ai ladri». Era convinto che ogni rifiuto che marciva in quella villa fosse un tesoro inestimabile.

Questo aumentò la paura del mercante.
«Ora devo andare. Non vedo l’ora di parlare con mia figlia».
«Giusto. Ricordati che se non arrivate qui entro domani vi trovo e vi faccio fuori» disse il mostro con quegli occhi terribili.
Attraversarono un salone in cui le scatole erano così tante che arrivavano al soffitto, percorrendo il camminamento sembrava di essere in una gola di montagna.
«Cosa c’è in tutte queste scatole?»
Il mostro si limitò a sorridere con aria di importanza.
Lassù in cima qualcosa si mosse. Il tremito si propagò. Una scatola cascò al loro passaggio. Il mercante sentì il tonfo che fa il vuoto quando esplode.
Arrivato a casa raccontò tutto alle figlie, che erano tre.
«Tutta colpa di Bellinda, come al solito. Una scatola! Che senso ha volere una scatola? Chiaro che poi incontri i pazzi» disse la sorella più grande.
«Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino» disse la sorella intermedia. In famiglia piacevano i proverbi.
Bellinda era la più piccola, la più bella e la più buona ma secondo le sorelle aveva delle stranezze. Da bambina vestiva la sua Barbie con degli stracci sporchi e la chiamava la «Barbie Barbona». La descrizione del mostro e della sua casa oltre a spaventarla la incuriosì. «Come è bella» disse rigirandosi tra le mani la scatolina.
«Lei in un momento come questo guarda la scatolina» strepitarono le sorelle.
«Non preoccupatevi. Non farò certo andare Bellinda dal mostro» disse il padre.
«Sì così quello ci trova e ci ammazza. Anche noi che non c’entriamo niente» disse la più grande.
«Becche e bastonate» gracchiò l’intermedia.
«Calme bambine. Domani chiamo la polizia. Non è che uno può fare il mostro in questo modo. Oggi come oggi è contro la legge».
La mattina dopo Bellinda disse: «Il mostro ha detto che se vado da lui non ci fa nulla? Allora vado. Mi sacrifico. Se poi mi ammazza vuol dire che muoio. Meglio una che tutti».
Non avevano finito di capire quella frase incredibile che Bellinda era già uscita. Il padre, appena si fu riavuto dallo stupore, si dimenticò di chiamare la polizia e corse dietro di lei. Perché Bellinda fece una cosa del genere? Il suo sacrificio sembra una forma di ribellione. Era quieta e buona. Ma questa apparenza nascondeva una insoddisfazione profonda. Da tempo, nel suo sguardo, c’era un guizzo che invocava le divinità della sua vita perché qualcosa avvenisse. E ora qualcosa stava avvenendo. La sua famiglia era così ragionevole, sempre dalla parte del giusto. Con quei proverbi e con quel buon senso. La descrizione del mostro la attirava.
Bellinda e suo padre arrivarono insieme alla villa. Ormai lui aveva rinunciato a convincerla a tornare indietro, a questo punto la accompagnava. «Promettimi che non lo denuncerai» disse lei. Lui promise. «Questa volta hai promesso a me, non al mostro» disse Bellinda. Bisogna dire che il poveruomo non capiva la figlia ma faceva del suo meglio.
Il mostro non c’era ma seguirono i cartelli che dicevano Per la cena di là. Non era ora di cena, il mostro doveva avere una strana idea del tempo.
Per quanto il padre l’avesse preparata allo spettacolo di una casa piena di cose rotte e inutili, Bellinda solo vedendola si rese conto della situazione. Se voleva una casa diversa dalla sua, l’aveva trovata.
«Un inferno» disse il padre. Da loro c’erano solo cose utili e funzionanti.
«Sì» rispose lei, intendendo la parola inferno in senso positivo.
«Un canyon di scatole» sussurrò emozionata. Le pareti di cartone si incurvavano pericolosamente sopra di loro. Le ricordò una gita nell’Orrido di Botri molti anni prima, quando c’era la mamma.
I cartelli li guidarono al piano di sopra. Si sedettero al tavolo da pranzo, circondato da cataste di libri e giacche vecchie. C’erano buste di patatine, merendine e cibi in scatola.

«Mangiamo. Dobbiamo farlo» disse il padre tristemente.
«Certo» fece lei tutta felice di non dover mangiare quelle verdure e quei cibi sani e dietetici che mangiavano di solito. E così cenarono alle 11 del mattino.
Risuonò un muggito che fece sollevare le pagine dei libri. Arrivò il mostro, Bellinda ne fu stordita. Unto, peloso, non se lo immaginava così brutto, una vera bestia.
«Vi sono piaciuti i miei manicaretti? Ho fatto lavorare i miei cuochi migliori». Era pazzo o li stava prendendo in giro?
«Benvenuta deliziosa ragazza amante delle scatole. Sarai la mia regina».
Lo sguardo lubrico del mostro era orrendo e volgare […]

Il racconto di Enzo Fileno Carabba, ispirato a “Bellinda e il mostro”, è contenuto in «Storie crudeli – le novelle toscane, oggi»… scaricalo ora in ebook!